Si chiama Easy food. Easy non significa monoprodotto o cucina banale. Ma una soluzione con pochi rischi, pochi costi e alta qualità. A inventarla un imprenditore torinese che ha creato Kombu, 300 specialità di sushi all’italiana.
«Dieci anni fa, lavoravo con mio padre, nella sua azienda, settore automotive. Con Daniele Bruno facevamo i pr in discoteca. Il sushi lo odiavo» esordisce Andrea Ratti, 38 anni, che con Daniele Bruno ha ideato Kombu. «Poi mi sono avvicinato al prodotto, ho cominciato a conoscerlo. A capire che si poteva elaborarlo per italianizzarlo, renderlo gradevole a chi non lo sopportava, come me. Me ne sono innamorato e ho sviluppato una dipendenza totale. Ho capito che era l’ideale per gestire facilmente un locale takeaway-delivery: l’ho chiamato kombu, “Kreative Japanese Food”. Abbiamo investito 70mila euro».
È un ristorante senza personale?
«Il personale serve solo per la preparazione. È la base della nostra formula: formiamo sushi man professionali per realizzare il prodotto migliore, ma abbattiamo le spese per il personale di servizio».
Come funziona il locale?
«C’è una cucina a vista, dove i sushi man preparano il cibo al momento. I clienti prendono il necessario usa e getta con cui apparecchiano il loro tavolo. Fanno la loro scelta dal menu. Pagano, ricevono una chiavetta, che vibra quando la loro ordinazione è pronta. A quel punto, la ritirano e la portano al tavolo».
È possibile anche aprire solo un take away?
«Sì, dipende dalle metrature dei locali. Nella nostra catena ci sono locali ampi come quello di Milano, in via Maroncelli, 120 mq, di cui 70 adibiti a zona consumo, con 45 coperti. E altri, come quelli di Moncalieri e di Torino, di 40 mq, che impiegano uno staff numeroso come quello di Milano».
Quali sono i punti di forza?
«Il prodotto è curato. Ampia la scelta del menu, sushi in oltre 300 preparazioni. C’è persino un tramezzino, senza alghe. La freschezza delle materie prime. Poi la velocità di preparazione, sotto gli occhi del cliente. E la spesa contenuta: 16-20 euro, in media».
Il personale è un punto di forza?
«Sì, alcuni dei nostri sushi man li ha presi Nobu! Il primo si è formato per tre anni con un cuoco giapponese. Poi, abbiamo preparato gli altri».
Come vi siete moltiplicati?
«La prima apertura è stata a Torino. Lì il sushi non piaceva. Io e il mio socio abbiamo avvicinato al nostro prodotto il popolo dei locali. Li abbiamo conquistati. Il nostro sushi, poi, è in evoluzione. Io continuo a trafficare con gli ingredienti, a provare combinazioni. Oggi siamo una catena di 17 locali, 7 di proprietà».
Si può aprire con voi un nuovo Kombu?
«Sì. I nostri partner sono in genere nostri clienti, persone che conosciamo che si innamorano del prodotto e della nostra filosofia. Chiediamo garanzie economiche
(fideiussione di 25mila euro), una fee d’ingresso da 20mila a 35mila euro, dipende dalla grandezza della città. Solo dal 13° mese chiediamo una royalty fissa mensile di 1.000 euro e un contributo marketing di 2.500-4.500 euro l’anno, per la comunicazione pubblicitaria. Quando apre un nuovo locale, lo store manager lavora per 2 mesi, prima, in un altro
locale della catena, e i cuochi li prepariamo noi. La loro formazione dura almeno un anno».
Aiuto? Burocrazia?
«Aiutiamo chi apre a scegliere la location: centro città. Offriamo la consulenza di un architetto. E affrontiamo con loro la burocrazia. Si deve scegliere se aprire solo un laboratorio di gastronomia o un ristorante con somministrazione. In alcune città, come Torino, le due formule sfumano una nell’altra. Fondamentale, l’iter per ottenere l’Haccp e l’ex-Rec».
Tratto dall’articolo “Come apro un locale senza camerieri” pubblicato su Millionaire di dicembre 2017. Per acquistare l’arretrato scrivi a abbonamenti@ieoinf.it