Fanatici degli sconti in continuo aumento. Calano i consumi e gli italiani puntano all’acquisto intelligente della griffe. Risultato: in Italia, sono più di 20 le cittadelle dello shopping low cost. Ma fanno affari anche i mini outlet. Il business rende. Strategie e trucchi per farlo funzionare
Caccia aperta alle occasioni di shopping: l’Italia ama l’outlet. Siamo secondi in Europa dopo la Gran Bretagna per il record di aperture. Sono più di 20 le cittadelle dell’acquisto low cost, ma tantissimi sono anche i mini outlet presenti in tutta Italia. Capi di ogni genere (con in prima fila le griffe più famose del made in Italy), scontati fino al 70%. Merce della stagione precedente, campionari per la vendita delle collezioni, prodotti di seconda scelta, ma l’acquisto intelligente è assicurato. Così, mentre i consumi calano e i negozi “normali” stentano a sopravvivere, è boom per quelli che propongono qualità e risparmio. Nati in Usa, negli anni ’30, i primi outlet sono arrivati in Europa 25 anni fa e in Italia, al Nord, dal 2000. Il termine outlet, che letteralmente è «sbocco, uscita, qualcosa da far fuori o eliminare», viene usato per indicare realtà commerciali diverse il cui denominatore comune è la vendita di prodotti di marca a prezzo (quasi) di fabbrica. Si va dagli spacci aziendali monomarca gestititi dalle aziende di produzione (factory outlet) alle stock-house di città multigriffe, fino ai mega outlet di 30 mila metri quadri costruiti in nodi stradali strategici.
Il primo factory outlet center (Foc), forse il più famoso d’Italia, è il McArthur Glen a Serravalle Scrivia, in provincia di Alessandria: aperto dal 2000, ha già attirato più di dieci milioni di visitatori. Gli ultimi sono stati aperti quest’estate a Molfetta, in provincia di Bari e nella Val di Chiana in Toscana (foto sotto, www.valdichianaoutlet.it). Spiega un imprenditore specializzato nella realizzazione di centri commerciali e outlet, Antonio Percassi (vedi box a pag. 48): «I mega outlet sono società per azioni che fanno capo a grossi gruppi immobiliari. Investono decine di milioni di euro per creare mini città che, oltre ai negozi, offrono bar, ristoranti, cinema e area giochi per i bimbi. Sempre più centri di relax e divertimento per tutta la famiglia, oltre che di shopping».
Se i Foc si contano sulle mani, gli spacci aziedali e i mini outlet presenti nel nostro Paese sono oggi alcune migliaia. Di più: c’è spazio per nuove imprese e il fenomeno sta prendendo piede anche nel Centro-Sud, a Roma, in Campania e nelle Isole. «E’ un tipo di negozio che va alla grande, più che altro nell’abbigliamento, anche sportivo e per bambini, e calzature, ma funziona anche per gli accessori – afferma Anna Zinola, docente di psicologia del marketing all’Università di Pavia. – Nel canale del risparmio intelligente stenta invece un po’ l’intimo, perché forte è la concorrenza di marchi in franchising di grande immagine e prezzi già alla portata di tutti».
Proprio da Napoli è partita l’idea di Giovanna Guadagno: aprire un mini outlet di abbigliamento a La Spezia (tel. 0187 736503). «Dopo la laurea in economia e commercio – dichiara Giovanna – e un lavoro in banca nel capoluogo campano, avevo voglia di diventare imprenditrice di me stessa. Visto il grande successo che questi negozi hanno nel Sud, ho pensato di replicare il business al Nord». In soli 40 metri offre collezioni della stagione passata di grandi griffe (Armani, D&G, Diesel, Patrizia Pepe), scontate fino al 70%. A scommettere sulla bontà dell’iniziativa, anche un’associazione locale di categoria che ha concesso un finanziamento a interessi ribassati sulle spese d’apertura. Dopo poco più di un anno i risultati danno ragione a tutti.
Ma chi va per outlet? Under 20 o signore chic, chi cerca il risparmio e chi non ha problemi a tirare la fine mese. La maggior parte sono donne (il 66%), tra i 30 e i 40 anni. Ma sono in aumento i clienti tra i 55 e i 64 anni, oltre il 12%. Anche il sesso forte non resiste alla seduzione dello shopping a buon mercato. «L’uomo va alla ricerca di prodotti di qualità a prezzi ragionevoli» afferma Marina Martorana, autrice del libro Outlet, la rivoluzione dei consumi e delle Guide annuali agli Spacci. Nei grandi outlet center c’è gente che pur di far l’affare percorre 300 chilometri, il sabato o la domenica. All’outlet The Mall in provincia di Firenze c’è chi arriva dal Giappone per saccheggiare capi di Gucci, Valentino, Loro Piana. I tedeschi che fanno le vacanze a Milano Marittima vanno a fare shopping nel vicino outlet di Fidenza. Così anche le agenzie di viaggi e i tour operator riescono a sfruttare il boom di questa nuova formula commerciale.
A Milano, è attiva My Special Guest (www.myspecialguest.com): una sorta di agenzia viaggi per italiani e stranieri che organizza outlet tour nei più famosi Foc.
«Superata la diffidenza iniziale e la paura di trovarci roba da mercato o fondi di magazzino, la maggior parte di chi fa acquisti in un outlet ci ritorna» dice Marina Martorana. Non a caso sempre più studiata è anche l’immagine di questo tipo di negozi, ben lontana dagli spacci degli anni passati. Secondo Chicca Laurenzano, titolare di www.guidaspacci.it, un portale Internet di factory outlet: «Allora si trattava di locali adiacenti al magazzino, arredati in modo molto semplice con pochi elementi di arredo. Oggi non è più così: i mini outlet più trendy sono vere boutique, sobrie ed eleganti, che pongono in giusto risalto la merce ordinatamente esposta per dare al cliente la possibilità di curiosare e provare i capi, rivolgendosi al personale solo se e quando si vuole».
Il fenomeno outlet è un business a tutti gli effetti perché, oltre ai consumatori, piace anche alle aziende stesse. Farsi il negozio-spaccio è un canale per tagliare i costi di distribuzione e vendere direttamente (e di più) al cliente finale ai prezzi del grossista. «All’azienda conviene dare la merce a terzi – aggiunge Marina Martorana – Ci si libera di rimanenze di produzione, aumentando la visibilità e l’accessibilità al proprio marchio, con la possibilità che il cliente soddisfatto acquisti anche la collezione di stagione. Addirittura, in alcuni casi, le aziende stesse usano questo canale per testare il gradimento al pubblico di una nuova linea, prima di lanciarla su scala industriale».
Ci sono negozi che si sono trasformati in raffinate stock-house, c’è chi ha destinato una parte dei locali ai “saldi permanenti” e c’è chi come Massa (due boutique storiche a Martina Franca in provincia di Taranto) ha aperto un personal outlet poco distante. «Sono questi i negozi del futuro» dichiara Angelo Panariti, titolare del marchio in franchising “Griffe&Stock multistore”. «Gli spazi per farci un business alla portata di tutti sono enormi, al Nord quanto al Sud, in zone residenziali o in centro città, in vie pedonali o con facilità di parcheggio. Basta contare su un bacino d’utenza di almeno 30 mila persone».
Ma quanti soldi servono? Per l’arredamento, servono 12-15 mila euro. Necessario un sistema antitaccheggio. Per la merce, invece, a seconda dell’assortimento e delle griffe che si trattano, si parte da 15/20 mila euro. I prodotti di marca costano ed è fondamentale riassortire ogni 20 giorni, per proporre cose sempre nuove. In genere, si deve pagare cash, in contanti. Ma dove trovare merce giusta da vendere? «Diversi sono i canali per le forniture» spiega Antonio Zoccali, da anni distributore multiprodotti per il Nord Italia. «Dal contatto diretto con le case di produzione (difficile, però, se non si fanno budget importanti) ai grossi rivenditori d’area che operano su Milano, Bologna, Roma. Dalle fiere (la più grande è Stock&Volume a Milano, www.stockevolume.it) agli stockisti che ritirano da fallimenti e cessazioni di attività, per vendere ai negozi, dietro un compenso anche del 15%». I più seri danno la possibilità di visionare la merce in magazzino e di acquistarla a piacere. «Noi andiamo a ritirare l’invenduto di alcune boutique toscane e dell’Emilia Romagna» dice Giovanna Guadagno. «La convenienza è reciproca: loro realizzano e fanno spazio alle nuove collezioni, noi siamo certi che si tratta di prodotti della stagione precedente. I contro? Ci obbligano a portarci via tutto». Gli approvvigionamenti degli stock non sono invece un problema per chi decide di avviare l’attività in franchising (vedi box sotto). Qui ci pensa la casa madre.
Gli affari, il più delle volte, vanno bene. I clienti che vanno negli outlet spendono anche 500-700 euro a botta.
«A negozio ben avviato ci sono mini outlet che fatturano 300-400 mila euro l’anno» dice Angelo Panariti. Anche un milione, le stock-house più grandi. E i ricarichi? Nessuno si sbilancia con cifre precise, ma è certo che sono allettanti, anche più del 100% sugli articoli meno cari. «In un mini outlet a gestione familiare, i guadagni, tolto affitto, luce e telefono, commercialista e poco altro, consentono di rientrare degli investimenti anche in meno di due anni» afferma Panariti.
A beneficiare di questo boom non sono solo gli operatori del settore. «Gli outlet center sono anche un validissimo volano – aggiunge Percassi – per aumentare l’occupazione locale. Ogni nuova realtà necessita di progettisti, designer e architetti, amministratori, responsabili marketing, pierre, segretarie e impiegati negli uffici, oltre che di tutto il personale front office a contatto con il pubblico. Dai commessi nei singoli negozi a chi lavora nei bar e ristoranti, fino al personale per le pulizie. Un esempio: nel nuovo Outlet della Val di Chiana sono stati creati circa 500 posti di lavoro».
Che cosa se ne fa un outlet dell’invenduto dopo averlo ulteriormente ribassato? Risponde Martorana: «Si può dedicare, per esempio, un post outlet per vendere le fine serie delle fine serie, come al Lancetti Outlet Center di Milano dove al piano superiore ci sono i last call di Boggi (abbigliamento uomo classicheggiante) e di Brian & Barry (capi, scarpe e accessori uomo casual-trendy)». Per i più intraprendenti, c’è la possibilità di dirottare gli “avanzi” su nuovi punti vendita da aprire in Romania, Ungheria, dove l’upper class stravede per il made in Italy anche se non di ultima generazione. E, poi, per evitare tra qualche anno la saturazione degli outlet che vendono moda, perché non puntare anche sui prodotti per la casa, profumi, edilizia, giocattoli e alimentare?
la burocrazia
pratiche semplici
Dopo la riforma sul Commercio, con la Legge 114/98, l’apertura di un negozio che non tratta generi alimentari è abbastanza semplice e veloce. Così, anche per piccoli outlet (inferiori ai 250 mq), basta inviare una comunicazione al Comune in cui avrà sede l’attività. Per negozi più grandi bisogna invece richiedere ancora l’autorizzazione, ma scaduti i 90 giorni vale la regola del silenzio-assenso.
Dopo di che, ecco che cosa resta da fare:
› Apertura Partita Iva;
› Conto fiscale;
› Iscrizione al Registro Imprese Camera di Commercio;
› Iscrizione Inps;
› Iscrizione Inail;
› Agibilità dei locali;
› Valutazione del rischio L. 626/1994;
› Autorizzazione Vigili del Fuoco (se oltre i 400 mq);
› Autorizzazione installazione insegne e cartelli segnaletici;
› Tassa rifiuti;
› Orari di apertura e turni di chiusura;
› Iscrizione associazioni di categoria (facoltativa).
Monica Gadda, Millionaire 12/2005